ciclo di incontri - marzo 1997
Quaderno n. 68
La figura dell'altro nelle religioni non cristiane
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Ebraismo

Martin Cunz


 

Nell’affrontare il tema dell’altro nell’ebraismo, mi rendo conto che lo faccio già in una posizione di dialogo con l’ebraismo stesso: in quanto non ebreo, ma cristiano, parlo di una realtà che, a prima vista, non è la mia. Penso, però, che si tratti di una delle realtà profonde anche del cristianesimo e della società secolarizzata del xx secolo.

Quando si accenna oggi al tema dell’altro nell’ebraismo, vengono subito in mente i nomi di due filosofi ebraici moderni: Martin Buber ed Emanuel Lévinas. Si tratta di due pensatori che hanno dato alla filosofia ebraica e, più in generale, alla filosofia europea contemporanea l’impronta decisiva in ordine alla problematica dell’alterità. In quanto pensatori moderni, Buber e Lévinas provengono dall’ambiente ebraico est-europeo: il primo è cresciuto a Leopoli (oggi in Ucraina) ed è stato in stretto contatto con il chassidismo; il secondo, è nato a Kovno, in Lettonia, in un ambiente influenzato non dal chassidismo, ma dall’illuminismo, pur avendo ricevuto una caratteristica formazione ebraica. Entrambi questi filosofi, nell’elaborare il loro specifico apporto, si sono riferiti al proprio ambiente ebraico originario: per formulare la sua filosofia dell’Io-Tu, Buber ha attinto dagli insegnamenti dei grandi maestri chassidici, mentre Lévinas, per sviluppare la filosofia dell’alterità, è andato alla scuola di Haim di Volozhin (un grande saggio lituano dell’Ottocento, forse poco conosciuto in Italia), oltre ad aver studiato profondamente il Talmud, dopo il suo arrivo a Parigi. Anche se il tema del mio intervento non riguarda in specifico Buber e Lévinas, ho voluto citare in apertura questi due filosofi perché essi costituiscono il punto di riferimento per ciò che mi accingo a dire, a partire da fonti bibliche e post-bibliche.

La mia tesi è che nell’ebraismo, dalla Bibbia fino ai nostri tempi, la figura dell’altro sia la chiave per ciò che oggi si definisce identità e che il pensiero ebraico si ponga in chiara contrapposizione all’ideologia dell’identità, molto sentita in ambito cristiano ed ecumenico. A mio parere, non è l’identità che rischiamo di smarrire, ma semmai l’alterità: ciò che si chiama comunemente l’identità, cioè la convinzione che io devo sapere chi sono prima di poter incontrare l’altro/a, è una pista sbagliata e, a volte, micidiale. Io posso scoprire chi sono soltanto attraverso l’altro: l’altro mi dice chi sono ed io posso vivere perché l’altro mi ri-conosce, prima ancora che io riconosca me stesso. Questo sembra, a prima vista, un modello alienante e poco diffuso; tuttavia, se il dialogo non è una sorta di autocompiacimento, in cui dialogo soltanto con me stesso al fine di rafforzare la mia identità, allora l’altro è decisivo per la scoperta di me stesso. Da qui derivano delle conseguenze etiche e teologiche fondamentali. Vorrei spiegare questa idea dell’identità-alterità tramite due piste: una (molto conosciuta) biblica e l’altra (forse meno nota) rabbinica.

1. A tutti sono note le prime parole della Bibbia: «Nell’inizio Dio creò i cieli e la terra» (Gen 1,1). Secondo questi famosi versetti, il mondo che esiste è una creazione della Parola di Dio, come ricorda una bellissima formula della preghiera ebraica del mattino: «Benedetto colui che parlò e il mondo fu». Quando Dio crea, nasce qualcosa o qualcuno che non è Dio: nasce l’altro. Dio lascia spazio all’altro, a ciò che non è Dio. Secondo la tradizione mistica di Itzach Luria (1534-1572), Dio, prima di creare il mondo, visto che era tutto in tutto, si è ritirato in se stesso (è la dottrina dello zimzum) per poter creare l’altro da sé: dalla sua bocca ha fatto uscire qualcosa che era fuori da sé. Gershom Sholem ha definito la teoria di Luria come il primo tentativo dell’epoca moderna di concepire un mondo senza Dio, perché, se Dio esistesse in questo mondo, non saremmo umani (creati), ma divini. L’altro, creato da Dio, si trova davanti a Lui (ha-shem lifné ‘elohim): ecco la radice di ogni dialogo tra Dio e il creato e nel creato stesso. Siamo marcati da questo primo atto della nostra nascita: per definizione siamo l’altro per Dio. Il dialogo e la scoperta dell’altro/a è possibile perché Dio crea il mondo in base al principio della dualità o, per meglio dire, dell’alterità e della separazione, tanto è vero che, a parte «Dio disse», la parola più importante di Gen 1 è «Dio separò».

Com’è noto, di tutte le cose Dio crea una coppia: cielo e terra, luce e tenebre, giorno e notte, terra e mare, sole e luna, pesci e uccelli, maschio e femmina, i sei giorni e il settimo (shabbat), il sacro e il profano. Questa creazione basata sul modello della dualità è l’analogia visibile del rapporto tra Dio e il mondo. C’è dunque l’io e il tu, il soggetto e l’oggetto. Da qui nasce l’invito a conoscere Dio nella sua alterità. Ecco il senso profondo della dualità-alterità del creato: conoscere l’altro! Il verbo con cui la Bibbia ebraica descrive l’alterità è lehavdil, «separare». Dopo aver creato la luce, Dio la separa dalle tenebre e nasce il giorno e la notte; e infatti gli ebrei, dopo il Sabato, celebrano la havdalah, «separazione», cerimonia con cui si segna la separazione tra lo shabbat e l’inizio della settimana, con questa berakah: «Benedetto sei tu Signore, nostro Dio, re dell’universo, che separi il sacro dal profano, la luce dalle tenebre, Israele dai popoli, il settimo giorno dai giorni del lavoro».

Lo scopo dell’alterità, come principio del rapporto tra Dio e la creazione e nella creazione stessa, è dunque la presenza e la vicinanza di uno davanti all’altro. La tradizione ebraica vede in un altro famoso passo della Bibbia la personalizzazione del rapporto tra Dio e l’uomo. Alla domanda di Mosè che chiede a Dio il Suo nome, egli risponde: «ehjeh asher ehjeh», «io sarò colui che sarò» (Es 3,14). Secondo la comprensione rabbinica, la rivelazione del nome corrisponde all’impegno di Dio nella storia, una storia che è orientata verso l’avvenire; e il Talmud commenta: «Come ho assistito i Padri e gli Israeliti nella loro schiavitù in Egitto, così li assisterò in avvenire nei loro esili futuri» (Berakot). Dio non lascia Israele e l’uomo da soli. Sebbene l’alterità implichi la solitudine, non soltanto per il creato ma anche per Dio (Dio è solo e l’uomo è il credente solitario), tuttavia essa include la presenza e la vicinanza, le quali però non sono unilaterali. Mentre infatti i cristiani sono abituati a parlare della presenza continua di Dio, nella tradizione ebraica si sottolinea molto anche il tema della presenza dell’uomo davanti a Dio, nella sua reciprocità: «Come tu Israele sei con Me, così Io sono con te». La rivelazione del nome a Mosè non descrive dunque solo l’essenza e il comportamento di Dio nei confronti degli uomini, ma anche l’essenza e il comportamento degli uomini tra di loro e nei confronti di Dio. In fondo, l’ehjeh asher ehjeh non è una definizione filosofica, nel senso greco del termine (infatti i lxx hanno tradotto «ego eimi ho on», «io sono colui che è»); al contrario, ponendo l’accento sulla presenza (presenza di Dio e presenza degli uomini tra di loro, uno davanti all’altro), questo ehjeh asher ehjeh («sarò presente come quello che sarà presente») si rivela come formula breve del dialogo.

Il più significativo paradigma di rapporto basato sulla vicinanza e sulla distanza, sull’aiuto e sul conflitto è costituito da Adamo ed Eva. In Gen 2,18 si dice: «Non è bene che l’uomo (‘adam) sia solo»; poi il testo ebraico continua: «Gli voglio creare un aiuto contro di lui (ezer keneghdoh)». Ecco tutta la problematica: Adam avrebbe potuto conoscere l’altro direttamente in Dio, senza intermediario; così lo descrivono ogni tanto i mistici ebraici e probabilmente i Padri della Chiesa: il primo Adam era il mistico per eccellenza che ha vissuto con Dio faccia a faccia; entrambi, Adam e Dio, avrebbero potuto superare la loro solitudine senza l’altra/a umani. Tuttavia, Dio dà a questo “uomo” un aiuto per superare la solitudine. Il termine  ezer, «aiuto», nella Bibbia ebraica, indica tanto una presenza divina quanto una presenza umana, molto intensa: non dunque l’aspetto “caritativo” viene posto in risalto, ma l’aspetto della presenza. L’azione che Dio compie per Adam è il dono del tu-umano; nell’uomo stesso Dio opera l’havdalah, cioè il grande principio della creazione. Secondo un midrash, Dio tagliò Adam, che aveva l’aspetto di un Giano bifronte, in due parti, in modo tale che le due facce si potessero guardare: la creazione dell’uomo e della donna è un capovolgimento della persona per poter dire «tu!». Adam infatti esclama: «Ossa delle mie ossa, carne della mia carne» (Gen 2,23), cioè si riconosce in lei. Si noti come in ebraico il termine ezem, «ossa», significhi anche «se stesso», per cui dire «ossa delle mie ossa» corrisponde a «ecco me stesso!». «Gli voglio creare un aiuto contro di lui» indica così la distinzione nella similitudine tra uomo e donna. Solo così possono proclamare l’unità: l’uomo e la donna diventano uni, ma devono sempre separarsi; insieme testimoniano l’unità di colui che solo è uno, cioè Dio. Questo è il motivo per cui la confessione centrale della fede ebraica è: «Shema Isra’el Adonaj elohenu, Adonaj ‘echad» («Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno», Deut 6,4). L’uomo creato, invece, non è mai uno.

Tuttavia l’alterità, come scoperta dell’altro, comporta in sé anche il conflitto: Eva, come aiuto, non è semplicemente una parte sottomessa ad Adam, come se la donna dovesse aiutare l’uomo a realizzarsi. Nel suo commento a questo passo, Rashi (1040-1105) afferma: «Se l’uomo sarà degno, la donna sarà per lui un aiuto; se invece non sarà degno, ella sarà contro di lui (keneghdoh) per combatterlo»: non solo quindi il riconoscimento, ma anche la contrapposizione. Questa vicinanza conflittuale è, secondo me, una delle immagine più suggestive anche del rapporto ebraico-cristiano e del rapporto tra cristiani stessi.

2. Nella tradizione ebraica, il rapporto Dio-uomo, uomo-creato, uomo-donna, è segnato dalla benedizione o dal suo contrario, la maledizione. La benedizione è la forma più radicale dell’alterità, in cui l’altro diventa decisivo per il proprio essere. Il sostantivo berakah (da lebarech, «benedire») non indica solo la benedizione, ma anche la preghiera: la benedizione di base della fede ebraica è Baruch hata, «Benedetto sei tu», due parole che racchiudono tutto il programma dell’alterità. Benedire è un rivolgersi radicale all’altro: il rivolgimento all’altro è benedizione. Non possiamo infatti benedire noi stessi! Nella benedizione mi rivolgo all’altro, non a me stesso: si potrebbe dire che la benedizione è il cammino da me a te. Con la benedizione io non guardo me, ma te: infatti Baruch hata non contiene una richiesta.

Maledizione deriva invece da leqalel, da qal, «leggero, facile»; maledire quindi significa «rendere leggero», cioè togliere la dignità; in termini teologici: io ti faccio l’oggetto del mio giudizio, io non vedo in te l’immagine di Dio, ma mi faccio di te un’immagine stereotipata, tu sei lo specchio in cui io mi vedo. In questo senso persino dei pregiudizi positivi (quali, per esempio, il considerare gli ebrei come necessariamente migliori) possono essere una maledizione.

Nell’ebraismo, come del resto nell’islam, alla benedizione è legato il gesto del piegare le ginocchia: baruch deriva da berekh, che significa appunto «ginocchio». Benedire Dio, allora, cioè «dire tu a Dio», significa piegare le ginocchia davanti a Lui; e così pure benedire un essere umano. Gli ebrei fanno uso della formula Baruch hata in tutte le occasioni della vita quotidiana: tutte le cose quotidiane devono essere legate a Dio con una berakah, non tanto per un ringraziamento, ma per ricollegare all’altro tutto ciò che succede. Tutta la realtà è coinvolta in questo «rivolgimento» all’altro: si potrebbe dire che la spiritualità ebraica, con la berakah, crea una vita cosciente davanti a Dio. Tutto e tutti sono l’occasione per tenere Dio davanti agli occhi, come dice il Salmo 16,8: «Ho sempre il Signore davanti agli occhi».

La prima cosa che Dio benedice sono gli uccelli e i pesci (Gen 1,22) e gli uomini (Gen 1,28). Con la sua benedizione, Dio formula il programma di queste creature («siate fecondi e moltiplicatevi»); benedire quindi non significa trasmettere forza religiosa o poteri sovrumani, ma dire all’altro le sue potenzialità. Si pensi alla benedizione di Giacobbe e di Esaù (Gen 27): Isacco pre-dice il futuro dei suoi due figli. La benedizione non crea nulla, ma è una constatazione di ciò che è e di ciò che sarà: Isacco dice ai suoi figli ciò che succederà di loro (si noti che Isacco, nonostante sia cieco, vede il futuro dei suoi figli). Benedire dunque significa: sii quello che sei fino in fondo!

Cosa succede però quando noi benediciamo Dio? Dire a Dio Baruch hata significa dichiarare davanti a Dio chi è Lui, tanto nel suo nascondimento quanto nella sua rivelazione; gli diciamo tutto ciò che egli è, come se gli dicessimo: O Dio, sii Dio, non smettere di essere Dio! Gli diciamo le sue potenzialità, come lui ci dice le nostre. Nella preghiera ebraica c’è dunque una profonda reciprocità, non solo tra esseri umani, ma anche con Dio; si potrebbe affermare che Dio ha bisogno dell’uomo per sapere chi è!

Io non posso esistere se tu non mi benedici: tu mi dici chi sono, non perché mi spersonalizzi, ma perché svegli le mie potenzialità; la tua benedizione mi dà vita e ciò vale sia tra gli esseri umani sia tra Dio e gli uomini. In quanto Dio che crea l’alterità, egli ha bisogno dell’altro-umano per sapere chi è in rapporto al creato: Dio aspetta l’uomo affinché l’uomo realizzi Dio. Non caso, Levi Yizhaq di Berditchev (1740-1810), un grande maestro chassidico, può affermare che l’uomo costruisce Dio, non il Dio con i suoi attributi filosofici e trascendenti, bensì in quanto presenza in questo mondo. Rabbi Levi cita spesso, infatti, il Salmo 22: dopo la domanda: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», si dice: «Eppure tu sei il Santo che risiede sulle benedizioni di Israele»; qui l’uomo dice a Dio chi è: se Israele non lo benedice, Dio non ha un trono su cui sedersi. Se non ci sono le benedizioni dell’uomo, non c’è neppure Dio. Contro la teologia classica la quale afferma che Dio non ha bisogno di noi, qui si afferma che Dio, in un certo senso, trema se gli uomini non lo pregano. E’ questa una dimensione dell’alterità molto profonda e, direi, molto poetica.

(testo ripreso dal registratore e non rivisto dall’Autore)

 

 

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