Nell’affrontare il tema dell’altro nell’ebraismo, mi rendo conto che lo
faccio già in una posizione di dialogo con l’ebraismo stesso: in quanto non
ebreo, ma cristiano, parlo di una realtà che, a prima vista, non è la mia.
Penso, però, che si tratti di una delle realtà profonde anche del cristianesimo
e della società secolarizzata del xx
secolo.
Quando si accenna
oggi al tema dell’altro nell’ebraismo, vengono subito in mente i nomi di
due filosofi ebraici moderni: Martin Buber ed Emanuel Lévinas. Si tratta di due
pensatori che hanno dato alla filosofia ebraica e, più in generale, alla
filosofia europea contemporanea l’impronta decisiva in ordine alla problematica
dell’alterità. In quanto pensatori moderni, Buber e Lévinas provengono
dall’ambiente ebraico est-europeo: il primo è cresciuto a Leopoli (oggi in
Ucraina) ed è stato in stretto contatto con il chassidismo; il secondo, è nato a
Kovno, in Lettonia, in un ambiente influenzato non dal chassidismo, ma
dall’illuminismo, pur avendo ricevuto una caratteristica formazione ebraica.
Entrambi questi filosofi, nell’elaborare il loro specifico apporto, si sono
riferiti al proprio ambiente ebraico originario: per formulare la sua filosofia
dell’Io-Tu, Buber ha attinto dagli insegnamenti dei grandi maestri
chassidici, mentre Lévinas, per sviluppare la filosofia dell’alterità, è
andato alla scuola di Haim di Volozhin (un grande saggio lituano dell’Ottocento,
forse poco conosciuto in Italia), oltre ad aver studiato profondamente il
Talmud, dopo il suo arrivo a Parigi. Anche se il tema del mio intervento non
riguarda in specifico Buber e Lévinas, ho voluto citare in apertura questi due
filosofi perché essi costituiscono il punto di riferimento per ciò che mi
accingo a dire, a partire da fonti bibliche e post-bibliche.
La mia tesi è che
nell’ebraismo, dalla Bibbia fino ai nostri tempi, la figura dell’altro
sia la chiave per ciò che oggi si definisce identità e che il pensiero
ebraico si ponga in chiara contrapposizione all’ideologia dell’identità, molto
sentita in ambito cristiano ed ecumenico. A mio parere, non è l’identità che
rischiamo di smarrire, ma semmai l’alterità: ciò che si chiama comunemente
l’identità, cioè la convinzione che io devo sapere chi sono prima di
poter incontrare l’altro/a, è una pista sbagliata e, a volte, micidiale. Io
posso scoprire chi sono soltanto attraverso l’altro: l’altro mi dice chi sono ed
io posso vivere perché l’altro mi ri-conosce, prima ancora che io riconosca me
stesso. Questo sembra, a prima vista, un modello alienante e poco diffuso;
tuttavia, se il dialogo non è una sorta di autocompiacimento, in cui dialogo
soltanto con me stesso al fine di rafforzare la mia identità, allora l’altro è
decisivo per la scoperta di me stesso. Da qui derivano delle conseguenze etiche
e teologiche fondamentali. Vorrei spiegare questa idea dell’identità-alterità
tramite due piste: una (molto conosciuta) biblica e l’altra (forse meno nota)
rabbinica.
1. A tutti
sono note le prime parole della Bibbia: «Nell’inizio Dio creò i cieli e la
terra» (Gen 1,1). Secondo questi famosi versetti, il mondo che esiste è una
creazione della Parola di Dio, come ricorda una bellissima formula della
preghiera ebraica del mattino: «Benedetto colui che parlò e il mondo fu». Quando
Dio crea, nasce qualcosa o qualcuno che non è Dio: nasce l’altro. Dio lascia
spazio all’altro, a ciò che non è Dio. Secondo la tradizione mistica di Itzach
Luria (1534-1572), Dio, prima di creare il mondo, visto che era tutto in tutto,
si è ritirato in se stesso (è la dottrina dello zimzum) per poter creare
l’altro da sé: dalla sua bocca ha fatto uscire qualcosa che era fuori da sé.
Gershom Sholem ha definito la teoria di Luria come il primo tentativo dell’epoca
moderna di concepire un mondo senza Dio, perché, se Dio esistesse in questo
mondo, non saremmo umani (creati), ma divini. L’altro, creato da Dio, si trova
davanti a Lui (ha-shem lifné ‘elohim): ecco la radice di ogni dialogo tra
Dio e il creato e nel creato stesso. Siamo marcati da questo primo atto della
nostra nascita: per definizione siamo l’altro per Dio. Il dialogo e la scoperta
dell’altro/a è possibile perché Dio crea il mondo in base al principio della
dualità o, per meglio dire, dell’alterità e della separazione,
tanto è vero che, a parte «Dio disse», la parola più importante di Gen 1 è «Dio
separò».
Com’è noto, di
tutte le cose Dio crea una coppia: cielo e terra, luce e tenebre, giorno e
notte, terra e mare, sole e luna, pesci e uccelli, maschio e femmina, i sei
giorni e il settimo (shabbat), il sacro e il profano. Questa creazione
basata sul modello della dualità è l’analogia visibile del rapporto tra Dio e il
mondo. C’è dunque l’io e il tu, il soggetto e l’oggetto. Da qui nasce l’invito a
conoscere Dio nella sua alterità. Ecco il senso profondo della dualità-alterità
del creato: conoscere l’altro! Il verbo con cui la Bibbia ebraica descrive l’alterità
è lehavdil, «separare». Dopo aver creato la luce, Dio la separa dalle
tenebre e nasce il giorno e la notte; e infatti gli ebrei, dopo il Sabato,
celebrano la havdalah, «separazione», cerimonia con cui si segna la
separazione tra lo shabbat e l’inizio della settimana, con questa
berakah: «Benedetto sei tu Signore, nostro Dio, re dell’universo, che separi
il sacro dal profano, la luce dalle tenebre, Israele dai popoli, il settimo
giorno dai giorni del lavoro».
Lo scopo dell’alterità,
come principio del rapporto tra Dio e la creazione e nella creazione stessa, è
dunque la presenza e la vicinanza di uno davanti all’altro. La tradizione
ebraica vede in un altro famoso passo della Bibbia la personalizzazione del
rapporto tra Dio e l’uomo. Alla domanda di Mosè che chiede a Dio il Suo nome,
egli risponde: «ehjeh asher ehjeh», «io sarò colui che sarò» (Es 3,14).
Secondo la comprensione rabbinica, la rivelazione del nome corrisponde
all’impegno di Dio nella storia, una storia che è orientata verso l’avvenire; e
il Talmud commenta: «Come ho assistito i Padri e gli Israeliti nella loro
schiavitù in Egitto, così li assisterò in avvenire nei loro esili futuri» (Berakot).
Dio non lascia Israele e l’uomo da soli. Sebbene l’alterità implichi la
solitudine, non soltanto per il creato ma anche per Dio (Dio è solo e l’uomo è
il credente solitario), tuttavia essa include la presenza e la vicinanza, le
quali però non sono unilaterali. Mentre infatti i cristiani sono abituati a
parlare della presenza continua di Dio, nella tradizione ebraica si sottolinea
molto anche il tema della presenza dell’uomo davanti a Dio, nella sua
reciprocità: «Come tu Israele sei con Me, così Io sono con te». La rivelazione
del nome a Mosè non descrive dunque solo l’essenza e il comportamento di Dio nei
confronti degli uomini, ma anche l’essenza e il comportamento degli uomini tra
di loro e nei confronti di Dio. In fondo, l’ehjeh asher ehjeh non è una
definizione filosofica, nel senso greco del termine (infatti i
lxx hanno tradotto «ego eimi ho
on», «io sono colui che è»); al contrario, ponendo l’accento sulla presenza
(presenza di Dio e presenza degli uomini tra di loro, uno davanti all’altro),
questo ehjeh asher ehjeh («sarò presente come quello che sarà presente»)
si rivela come formula breve del dialogo.
Il più
significativo paradigma di rapporto basato sulla vicinanza e sulla distanza,
sull’aiuto e sul conflitto è costituito da Adamo ed Eva. In Gen 2,18 si dice:
«Non è bene che l’uomo (‘adam) sia solo»; poi il testo ebraico continua:
«Gli voglio creare un aiuto contro di lui (ezer keneghdoh)». Ecco
tutta la problematica: Adam avrebbe potuto conoscere l’altro direttamente in
Dio, senza intermediario; così lo descrivono ogni tanto i mistici ebraici e
probabilmente i Padri della Chiesa: il primo Adam era il mistico per eccellenza
che ha vissuto con Dio faccia a faccia; entrambi, Adam e Dio, avrebbero potuto
superare la loro solitudine senza l’altra/a umani. Tuttavia, Dio dà a questo
“uomo” un aiuto per superare la solitudine. Il termine ezer, «aiuto»,
nella Bibbia ebraica, indica tanto una presenza divina quanto una presenza
umana, molto intensa: non dunque l’aspetto “caritativo” viene posto in risalto,
ma l’aspetto della presenza. L’azione che Dio compie per Adam è il dono del
tu-umano; nell’uomo stesso Dio opera l’havdalah, cioè il grande
principio della creazione. Secondo un midrash, Dio tagliò Adam, che aveva
l’aspetto di un Giano bifronte, in due parti, in modo tale che le due facce si
potessero guardare: la creazione dell’uomo e della donna è un capovolgimento
della persona per poter dire «tu!». Adam infatti esclama: «Ossa delle mie ossa,
carne della mia carne» (Gen 2,23), cioè si riconosce in lei. Si noti come in
ebraico il termine ezem, «ossa», significhi anche «se stesso», per cui
dire «ossa delle mie ossa» corrisponde a «ecco me stesso!». «Gli voglio creare
un aiuto contro di lui» indica così la distinzione nella similitudine
tra uomo e donna. Solo così possono proclamare l’unità: l’uomo e la donna
diventano uni, ma devono sempre separarsi; insieme testimoniano l’unità di colui
che solo è uno, cioè Dio. Questo è il motivo per cui la confessione centrale
della fede ebraica è: «Shema Isra’el Adonaj elohenu, Adonaj ‘echad»
(«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno», Deut 6,4).
L’uomo creato, invece, non è mai uno.
Tuttavia l’alterità,
come scoperta dell’altro, comporta in sé anche il conflitto: Eva, come aiuto,
non è semplicemente una parte sottomessa ad Adam, come se la donna dovesse
aiutare l’uomo a realizzarsi. Nel suo commento a questo passo, Rashi (1040-1105)
afferma: «Se l’uomo sarà degno, la donna sarà per lui un aiuto; se invece non
sarà degno, ella sarà contro di lui (keneghdoh) per combatterlo»: non
solo quindi il riconoscimento, ma anche la contrapposizione. Questa vicinanza
conflittuale è, secondo me, una delle immagine più suggestive anche del rapporto
ebraico-cristiano e del rapporto tra cristiani stessi.
2. Nella
tradizione ebraica, il rapporto Dio-uomo, uomo-creato, uomo-donna, è segnato
dalla benedizione o dal suo contrario, la maledizione. La
benedizione è la forma più radicale dell’alterità, in cui l’altro diventa
decisivo per il proprio essere. Il sostantivo berakah (da lebarech,
«benedire») non indica solo la benedizione, ma anche la preghiera: la
benedizione di base della fede ebraica è Baruch hata, «Benedetto sei tu»,
due parole che racchiudono tutto il programma dell’alterità. Benedire è un
rivolgersi radicale all’altro: il rivolgimento all’altro è benedizione. Non
possiamo infatti benedire noi stessi! Nella benedizione mi rivolgo all’altro,
non a me stesso: si potrebbe dire che la benedizione è il cammino da me a te.
Con la benedizione io non guardo me, ma te: infatti Baruch hata non
contiene una richiesta.
Maledizione
deriva invece da leqalel, da qal, «leggero, facile»; maledire
quindi significa «rendere leggero», cioè togliere la dignità; in termini
teologici: io ti faccio l’oggetto del mio giudizio, io non vedo in te l’immagine
di Dio, ma mi faccio di te un’immagine stereotipata, tu sei lo specchio in cui
io mi vedo. In questo senso persino dei pregiudizi positivi (quali, per esempio,
il considerare gli ebrei come necessariamente migliori) possono essere una
maledizione.
Nell’ebraismo,
come del resto nell’islam, alla benedizione è legato il gesto del piegare le
ginocchia: baruch deriva da berekh, che significa appunto
«ginocchio». Benedire Dio, allora, cioè «dire tu a Dio», significa piegare le
ginocchia davanti a Lui; e così pure benedire un essere umano. Gli ebrei fanno
uso della formula Baruch hata in tutte le occasioni della vita
quotidiana: tutte le cose quotidiane devono essere legate a Dio con una
berakah, non tanto per un ringraziamento, ma per ricollegare all’altro tutto
ciò che succede. Tutta la realtà è coinvolta in questo «rivolgimento» all’altro:
si potrebbe dire che la spiritualità ebraica, con la berakah, crea una
vita cosciente davanti a Dio. Tutto e tutti sono l’occasione per tenere Dio
davanti agli occhi, come dice il Salmo 16,8: «Ho sempre il Signore davanti agli
occhi».
La prima cosa che
Dio benedice sono gli uccelli e i pesci (Gen 1,22) e gli uomini (Gen 1,28). Con
la sua benedizione, Dio formula il programma di queste creature («siate fecondi
e moltiplicatevi»); benedire quindi non significa trasmettere forza religiosa o
poteri sovrumani, ma dire all’altro le sue potenzialità. Si pensi alla
benedizione di Giacobbe e di Esaù (Gen 27): Isacco pre-dice il futuro dei suoi
due figli. La benedizione non crea nulla, ma è una constatazione di ciò che è e
di ciò che sarà: Isacco dice ai suoi figli ciò che succederà di loro (si noti
che Isacco, nonostante sia cieco, vede il futuro dei suoi figli). Benedire
dunque significa: sii quello che sei fino in fondo!
Cosa succede però
quando noi benediciamo Dio? Dire a Dio Baruch hata significa dichiarare
davanti a Dio chi è Lui, tanto nel suo nascondimento quanto nella sua
rivelazione; gli diciamo tutto ciò che egli è, come se gli dicessimo: O Dio, sii
Dio, non smettere di essere Dio! Gli diciamo le sue potenzialità, come lui ci
dice le nostre. Nella preghiera ebraica c’è dunque una profonda reciprocità, non
solo tra esseri umani, ma anche con Dio; si potrebbe affermare che Dio ha
bisogno dell’uomo per sapere chi è!
Io non posso
esistere se tu non mi benedici: tu mi dici chi sono, non perché mi
spersonalizzi, ma perché svegli le mie potenzialità; la tua benedizione mi dà
vita e ciò vale sia tra gli esseri umani sia tra Dio e gli uomini. In quanto Dio
che crea l’alterità, egli ha bisogno dell’altro-umano per sapere chi è in
rapporto al creato: Dio aspetta l’uomo affinché l’uomo realizzi Dio. Non caso,
Levi Yizhaq di Berditchev (1740-1810), un grande maestro chassidico, può
affermare che l’uomo costruisce Dio, non il Dio con i suoi attributi filosofici
e trascendenti, bensì in quanto presenza in questo mondo. Rabbi Levi cita
spesso, infatti, il Salmo 22: dopo la domanda: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato», si dice: «Eppure tu sei il Santo che risiede sulle benedizioni di
Israele»; qui l’uomo dice a Dio chi è: se Israele non lo benedice, Dio non ha un
trono su cui sedersi. Se non ci sono le benedizioni dell’uomo, non c’è neppure
Dio. Contro la teologia classica la quale afferma che Dio non ha bisogno di noi,
qui si afferma che Dio, in un certo senso, trema se gli uomini non lo pregano.
E’ questa una dimensione dell’alterità molto profonda e, direi, molto poetica.
(testo
ripreso dal registratore e non rivisto dall’Autore)
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